Arte e cultura
L'uomo dietro il pennello: due chiacchiere con Franco Gotta

Franco Gotta, classe 1952, braidese autoctono, è un interessante pittore braidese che nel suo piccolo ha sempre continuato a praticare la propria arte. Di casa in casa, di studio in studio, ha sempre continuato a dipingere e confessare alla tela la propria anima, il proprio pensiero, bello o brutto.
La mostra a Bra, a Palazzo Mathis, ci ha spinti ad incontrarlo per far due chiacchiere con lui, di bottega e non, per conoscere direttamente l’uomo ancora prima del quadro, senza alcun mezzo di comunicazione se non la mera voce.
Ho iniziato a dipingere in modo più professionale nell’‘86, prima dipingevo a livello di hobby. Anche perché ti assicuro che a quei tempi là… per mio padre vedermi dipingere voleva dire vedere l’inizio del fallimento della mia vita. Gli avessi mai detto che volevo fare il pittore nella vita, mi avrebbe risposto: “No, tu vuoi fare il fallito”.
Sono stato condizionato da un padre che non credeva nella pittura come realizzazione del mio futuro, ma ti dirò una cosa: se mio padre non mi avesse fatto tutto questo ostruzionismo, forse non avrei iniziato, e quel suo fare mi stimolava a dimostrargli il contrario. Quindi forse alla fin fine è stato un bene, perché mi ha fatto l’effetto opposto.
Sì, e mi è servito molto per maturare come uomo, crescere nel mio modo di pormi con le persone.
Un lavoro molto interessante, ma per me l’ufficio era come una prigione dorata, e così senza troppe sicurezze di ciò che sarebbe stato ho preferito licenziarmi e dedicarmi soltanto alla pittura.E pensa che mi sono licenziato quando la madre dei miei figli era incinta, pensavo di uno e invece nell’ecografia, la sorpresa: erano due!
Ho conosciuto dei pittori, non ho proprio fatto apprendistato. Quando uscivo dall’ufficio, andavo alla bottega di un pittore che aveva un negozio in via Umberto, che faceva una pittura completamente diversa dalla mia.
Mi piaceva comunque parlare con lui, anche il solo sentire l’odore dei colori mi piaceva molto. In seguito – era il 1979 – conobbi un pittore di Racconigi, Carlo Sismonda.
I suoi colori mi colpirono a tal punto da farli miei, pur non avendolo mai visto dipingere: mi sono entrati i suoi colori dentro, colori molto forti, da espressionista tedesco, e ne ho acquistati tanti. Poi dall’‘86 ho iniziato a fare mostre, a dipingere in modo più professionale.
Più o meno, ci sono stati dei momenti da staccare completamente. Forse adesso, negli ultimi due anni, e trovo che Matteo mi abbia dato molta spinta, soprattutto per le tre ultime mostre. Se non fosse stato per lui, avrei accettato degli inviti e li avrei lasciati andare persi.
Assolutamente, ho solo visto un cambiamento delle persone nel loro portafoglio. È solo questione di avere o non avere il ‘vil denaro’: negli anni in cui vendevo molto, la gente aveva tanti soldi. I quadri piacevano trent’anni fa come piacciono oggi, il problema è che trent’anni fa c’erano soldi da spendere, oggi non più. E questo, per chi vende, non è poco.
Poi è arrivata anche un’altra cosa: i venditori che fanno le copie di grandi quadri e le vendono a cinquanta euro, quindi per spendere cinquecento, seicento euro, la gente pensa che tanto valga comprare la copia di un originale anche se più delle volte è fatta male.
Ho sempre puntato più al curriculum che alla vendita: mi interessava fare la mostra perché uscivano gli articoli, tutto faceva curriculum.
Vendevo molto nel mio studio, e son sincero se ti dico che spesso sono stato bravo a vendere me stesso: sapevo capire il cliente, cosa cercava, le storie che raccontavo facevano sì che chi mi stava dinnanzi restasse quasi ipnotizzato. Ad esempio, una volta raccontai ad una signora che il biondo dei suoi capelli mi aveva ispirato un dipinto, un campo di grano, abbastanza grande, 70×80 o 70×100. Venne su, lo vide, tornò con il marito e oltre a quello ne comprò tre. Queste cose io le facevo non per vendere, ma perché mi venivano spontanee ; non le ho fatte con quello scopo lì, ma alla fine il risultato è stato quello.
C’è anche il rovescio della medaglia e me l’ha scritto molto bene una donna, un giorno. Mi scrisse: “Cosa hai detto a me che non hai già detto ad altre mille donne?”. Questa cosa me la ricorderò per tutta la vita.
O forse, come mi ha detto la madre dei miei figli, non ho mai saputo davvero cosa sia l’amore per una donna, pur essendomi innamorato cento volte!
Io penso che nella vita bisogna vivere l’amore. Se parti da questo principio, l’amore non te lo può dare una sola persona. Nel momento in cui sono con una persona, do tutto me stesso; se lei si concede, prendo tutto; ma quando finisce, l’amore c’è, resta ancora, lo trasporti in un’altra persona.
È questione di tempo: devi avere la capacità di accorciare il tempo della tua sofferenza; la mia fortuna è sempre stata che ho ridotto questo tempo. Quando l’amore finisce, cambi, passa, e non può essere più come prima perché ti trasformi dentro.
Poi parto sempre da un altro principio: se non vuoi la mia amicizia o il mio amore, chi ci rimette sei tu. Nel senso che io di te posso farne a meno, se non ci sei trovo altrove. E questo in amore mi è sempre servito, perché da alcune persone sono stato ricercato più avanti nel tempo.
Anche gli istinti, che non sono pericolosi se riesci a controllarli. Devi avere l’intelligenza di capire se l’altra persona è davvero innamorata di te. Se non perdi il lume della ragione, te ne accorgi…
Dovete avere molta più fiducia in voi stessi, perché valete molto di più di quello che pensate. Tendete a sottovalutarvi, manca la sicurezza in te stesso di potersi dire: “Io valgo”. Ma non devono dirtelo gli altri, devi essere te che lo dici a te stesso.
E così chiudiamo la chiacchierata con Franco Gotta, o meglio spegniamo i microfoni, perché l’occasione di conoscenza c’è ed è quella d’un uomo ben conscio di se stesso, esperito e talentuoso, dall’anima bella, che si esprime con semplice e bianca sincerità tanto sulla tela quanto nella vita.