Se si volesse guardare ad un altro luogo di Feria d’agosto, per poi spostarsi alla Luna e i falò, si dovrebbe guardare a La vigna, in cui, non a caso, ritorna molto di quanto sottolineato nel precedente articolo:
Neanche sulla vigna il tempo passa; la sua stagione è settembre e torna sempre, e appare eterna. Solamente un ragazzo la conosce davvero; sono passati gli anni, ma davanti alla vigna l’uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo.
Il sospetto di ciò che deve – che è dovuto – accadere, la mantiene la stessa e risuscita nel ricordo l’infanzia. Ma nulla è veramente accaduto e il ragazzo non sapeva di attendere ciò che adesso sfugge anche al ricordo. E ciò che non accadde al principio non può accadere mai più. (Cesare Pavese, La vigna, in Feria d’agosto)
L’alone temporale mitico delle Langhe di Pavese
Nell’ultimo romanzo di Pavese, sempre secondo questa linea interpretativa, salterebbe immediatamente all’attenzione la questione riguardante il tempo: così come sia nel mito sia nell’immagine sopracitata si parla di una “mattina di settembre” fermata nel tempo e si accenna ad una dimensione del passato che si ripete secondo determinate occorrenze, nel romanzo si ricorda un simile periodo in maniera simbolica.
Questo è tale perché rimase particolarmente impresso nella memoria infantile di Anguilla:
Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo. Canelli è tutto il mondo – Canelli e la valle del Belbo – e sulle colline il tempo non passa. (Cesare Pavese, La luna e i falò, capitolo X)
Il mito delle colline
Nel meccanismo narrativo si innesca dunque una sospensione temporale legata alle colline, le quali diventano un mondo mitico su cui il tempo si ferma e tutto resta sempre come è (sfondo, questo, molto praticato nei Dialoghi con Leucò, dal punto di vista sia spaziale sia temporale).
Oltre a ciò, è di centrale importanza anche il periodo dell’infanzia, unica e vera dimensione esistenziale ridotta ai minimi termini, spolverata da quella sedimentazione che costituisce il presente.
Da questo punto in avanti la discussione deve farsi molto più teorica e concettualizzante: Pavese scende in una serrata analisi della causa antropologica del mito, ma anche dell’effetto che questo ha sulla psicologia dell’uomo che ne entra in contatto.
La sua interrogazione, che contrae brillanti suggerimenti circa la composizione (sia poetica sia prosastica, direi, come se il mito potesse essere inglobato nella creazione), ricerca il valore antropologico del mito:
L’impresa dell’eroe mitico non è tale perché disseminata di casi soprannaturali o fratture della normalità (queste anzi suppongono, nel credente, la consapevolezza di una normalità, ciò che non è gran che propizio al concepire mitico); bensí perché essa attinge un valore assoluto di norma immobile che, proprio perché immobile, si rivela perennemente interpretabile ex novo, polivalente, simbolica insomma.
Devi guardarti dal confondere il mito con le redazioni poetiche che ne sono state fatte o se ne vanno facendo; esso precede, non è, l’espressione che gli si dà; nel suo caso si può ben parlare di un contenuto distinto dalla forma (seppure di una forma, anche sommaria, non possa mai fare a meno); e prova ciò il fatto che il vero mito non muta valore, lo si esprima a parole, a segni, o a mimica.
Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo. (Cesare Pavese, Del mito, del simbolo e d’altro, in Feria d’agosto)
Questa riflessione è particolarmente felice per il rapporto intertestuale preso in analisi: essa trova un esito di applicazione notevole nella Luna e i falò, nel momento in cui Anguilla resta colpito quando, abituato ai simboli contratti durante la sua infanzia, si scontra con le immagini che ad essi hanno dato nascita.
In questo modo, le colline che il protagonista viveva da bambino – le stesse di Pavese, si ricordi – sembrano essere immerse in una parentesi mitica:
Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora. (Cesare Pavese, La luna e i falò, capitolo VI)