Probabilmente il titolo di questo articolo stupirà diversi lettori: cercare di comparare un’opera così tanto grande quanto la Commedia dantesca con un’opera di Pavese potrebbe effettivamente sembrare un’operazione di fantasia, dettata forse da un eccessiva fissazione nel riscontro con i testi.
La lettera di Pavese
In realtà, leggendo una lettera di Pavese del 1949 si scopre che porre in relazione il capolavoro di Dante con l’ultima opera dello scrittore piemontese non è affatto un gesto esagerato, anzi è lo scrittore stesso che definisce così il suo ultimo romanzo:
Io sono come pazzo perché ho avuto una mirabile visione (naturalmente di stalle, sudore contadinotti, verderame e letame ecc.) su cui dovrei costruire una modesta Divina Commedia. Ci penso sopra, e tutti i giorni diminuisce la tensione – che alle visioni siano necessarie le Beatrici? Bah, si vedrà.
Cesare Pavese, lettera ad Adolfo ed Eugenia Ruata, 17 luglio 1949.
Dal passo, breve ma estremamente importante per la filologia dei testi del nostro autore, si capisce chiaramente come l’esperimento di Pavese sia quello di trasporre l’esperienza dantesca contenuta nella Commedia in un romanzo, lo stesso che scrisse, completandolo molto velocemente, tra l’autunno e l’inverno del 1949 (di cui la lettera luglienga dà una chiara anticipazione).
La sua “modesta Divina Commedia”
In particolare, i due elementi più importanti di questa citazione sono “mirabile visione” e la parentesi che ad essa segue: l’illuminazione di Pavese è, al pari di quella del Dante della Vita nova (da dove la stessa espressione viene probabilmente presa in prestito), il motivo che spinge l’artista a creare la sua opera, a comporre e dare forma alla propria idea; differentemente dalla natura dell’opera dantesca, però, Pavese intende ambientare la propria opera in un contesto chiaramente rurale, di “contadinotti”, vale a dire ciò che per lui rappresenta lo scenario langarolo, spesse volte riflesso nei suoi romanzi.
La luna e i falò
Questa via di interpretazione de la luna e i falò è già stata saggiata, sebbene in maniera ancora troppo timida, ed ha dato i primi risultati di quanto potrebbe effettivamente risultare una riscrittura (in chiave estremamente personale e rivisitata) del capolavoro dantesco.
L’ultimo romanzo pavesiano, infatti, contiene diversi motivi che si prestano alla comparazione, alcuni dei quali anticipati particolarmente in Il mare, racconto contenuto in Feria d’agosto.
Le corrispondenze dei personaggi
Innanzitutto, particolarmente importante per La luna e i falò è la figura di Nuto, il grande amico (a volte anche maestro) che Anguilla ritrova al suo ritorno a Santo Stefano Belbo, identificabile con la reale figura del falegname Giuseppe Scaglione, il quale guadagnò il soprannome che lo contraddistingue dopo aver ricevuto un caloroso “benvenuto” dallo stesso Pavese durante una visita che a lui fece, presso la sua abitazione torinese.
Nell’ottica del romanzo, egli corrisponde al Virgilio dantesco poiché accompagna Anguilla nel suo ritorno alla patria infantile, facendogli da vera e propria guida riguardo al cambiamento che il paese ha subìto durante l’assenza del protagonista.
Nuto e Virgilio
Diversi sono i passi in cui, parlando, Nuto illumina l’amico con un fare fortemente virigliano. Un esempio può essere il punto in cui, rompendo la tensione mitico-simbolica del romanzo, racconta ad Anguilla, dall’alto della sua esperienza partigiana, delle vicende politiche che si sono susseguite durante la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza:
Ci sedemmo all’ombra di quattro canne, sull’erba dura, e Nuto mi spiegò perché il deputato non tornava. Dal giorno della liberazione – quel sospirato 25 aprile tutto era andato sempre peggio. In quei giorni sì che s’era fatto qualcosa. Se anche i mezzadri e i miserabili del paese non andavano loro per il mondo, nell’anno della guerra era venuto il mondo a svegliarli. C’era stata gente di tutte le parti, meridionali, toscani, cittadini, studenti, sfollati, operai – perfino i tedeschi, perfino i fascisti eran serviti a qualcosa, avevano aperto gli occhi ai più tonti, costretto tutti a mostrarsi per quello che erano, io di qua tu di là, tu per sfruttare il contadino, io perché abbiate un avvenire anche voi. E i renitenti, gli sbandati, avevano fatto vedere al governo dei signori che non basta la voglia per mettersi in guerra.
Si capisce, in tutto quel quarantotto s’era fatto anche del male, s’era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti: sempre meno – disse Nuto – della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada o fatto crepare.
E poi? com’era andata? Si era smesso di stare all’erta, si era creduto agli alleati, si era creduto ai prepotenti di prima che adesso – passata la grandine – sbucavano fuori dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi. – E siamo a questo, – disse Nuto, – che un prete che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa della repubblica e di due spie della repubblica. Se anche fossero stati fucilati per niente, – disse, – toccava a lui fare la forca ai partigiani che sono morti come mosche per salvare il paese?
Cesare Pavese, La luna e i falò, capitolo XIII.
Palese è qui il motivo del cambiamento, evidenziato in particolare dal risvolto politico del romanzo che rovina la ricerche del tempo perduto dell’infanzia (altro aspetto estremamente importante che lega Pavese alle Langhe).
La prova di ciò sta nel fatto che Anguilla, nonostante la parentesi politica dell’amico, resta concentrato sulla Gaminella (la collina su cui è cresciuto, presso la famiglia che lo ha adottato), che i due stanno osservando, pensando di ritornarvi per vedere quale effetto il tempo ha avuto su di essa.
Pavese & le Langhe: gli altri articoli
Di seguito l’elenco in ordine di pubblicazione degli articoli dedicati al rapporto di Pavese col territorio, la lingua e la letteratura: