Le aie invase dalle nocciole. I tini colmi di mosto in fermentazione. L’orto che trabocca di zucche, porri, cardi. I frutteti odorosi di fichi e, tra le foglie che iniziano a cadere, le inconfondibili macchie arancioni dei cachi maturi. In campagna, tutto accade in autunno, tutto insieme.
La stagione che i borghesi hanno ammantato di nebbie, noie e tristezze era (ed è tutt’ora) la più frenetica dell’anno sulle colline di Langa. Autunno è augere nell’antica etimologia latina: ovvero «aumentare», «arricchire».
Il periodo dell’anno in cui ogni sforzo estivo giungeva a compimento, ogni frutto si concedeva al culmine della maturazione e ogni preghiera per il raccolto si trasformava in sopravvivenza (o stenti) per l’inverno incalzante.
Inizia l’autunno nelle vigne
Ad annunciare l’autunno era l’invaiatura dei grappoli, il cambio del loro colore. Dal verde al giallo dorato per le varietà a bacca bianca come l’Arneis e la Favorita, le prime ad essere vendemmiate in settembre.
Dal giallo al blu per la Barbera, il Dolcetto e il Nebbiolo la cui raccolta poteva procedere anche a novembre inoltrato, tra le nebbie complici della sua lenta maturazione e del suo stesso nome.
Allora tutto il lavoro si concentrava sulla preparazione della vendemmia, l’organizzazione degli uomini e delle donne per la raccolta, la logistica per il trasporto delle uve ai mercati, le imprecazioni per il cattivo tempo.
Ben oltre il dopoguerra, la maggior parte dei contadini non produceva vino ma conferiva alle grandi cantine cittadine o alle cooperative sociali. Era lì che avvenivano le pigiature, i travasi, i lunghi affinamenti; che gli operai sciamavano notte e giorno per trasformare le uve in mosti.
Ed era dai cortili delle grandi aziende che i mediatori decidevano i prezzi a cui avrebbero acquistato le uve, stabilendo, più o meno consapevolmente, la felicità o la miseria delle famiglie contadine.
In Cascina
In campagna si dava via tutto ciò che poteva essere venduto fresco e si teneva giusto ciò che serviva per l’inverno. Ogni eccesso era trasformato in conserve, marmellate, insaccati.
Frutta in barattolo
Dopo le uve c’erano le nocciole da stendere sull’aia; dopo le nocciole le castagne; dopo le castagne, la ricerca del tartufo e dopo il tartufo – a inverno incominciato – la macellazione dei maiali.
Un flusso continuo di lavoro che poteva essere interrotto solo dai momenti collettivi della festa, in cui il tempo del sacro aveva la meglio anche sulla fatica.
San Martino
La più celebre era la festa di San Martino, l’11 novembre. Segnava la fine convenzionale dell’autunno, la sosta attesa dai lavori in campagna (San Martin ël most a l’é vin, «a San Martino il mosto diventa vino»).
E allo stesso tempo sanciva il termine legale dei contratti tra padroni e mezzadri. Se fossero stati rinnovati, i contadini sarebbero rimasti dov’erano, pronti a una nuova stagione. Altrimenti, avrebbero fatto armi e bagagli alla ricerca di un nuovo padrone (fé San Martin significava proprio «traslocare»).
La transumanza
Che si restasse o si partisse, l’autunno conservava intatti i suoi riti di passaggio, simboleggiati dalla transumanza. Di paese in paese, di cascina in cascina, le greggi e le mandrie tornavano dalle montagne alle pianure per affrontare l’inverno, il letargo.
Così gli uomini, attraversata l’esuberanza dell’estate e l’abbondanza dell’autunno, dovevano imparare a conservare gli sforzi dell’anno, utilizzando tutte le energie per dar vita a prodotti e tradizioni in grado di resistere alla pausa forzata della natura.
La stagione del vino
Non esiste vino senza autunno, ma potrebbe esserci un autunno senza vino. Eventualità che, nelle Langhe, avrebbe significato la più nera delle carestie, la più cupa delle profezie.
Non esiste vino senza autunno, ma potrebbe esserci un autunno senza vino
Dalla fine dell’800, la radicale specializzazione di queste colline sul vino ha creato un legame inscindibile con la vita delle persone e il loro sostentamento. La vendita delle uve da vino costituiva la maggior fonte di guadagno per le famiglie contadine, che concentravano ogni loro sforzo e preghiera nel buon esito della vendemmia.
Uno sforzo collettivo e partecipato, in cui tutti erano coinvolti perché tutti erano più o meno toccati dal suo esito.
Come per la mietitura del grano, intere comunità si mobilitavano per la vendemmia, aiutandosi reciprocamente. La vendemmia era anche grande tema di discussioni: si facevano scongiuri, previsioni, scommesse.
Era certamente il momento più importante dell’anno, il momento topico per eccellenza. La fatica veniva divisa, così come i momenti di gioia. In tutte le cascine si lavorava e si mangiava insieme, fino a che l’ultimo grappolo fosse stato reciso. Si iniziava all’alba e si terminava al tramonto. Si cominciava vestiti con le giacche pesanti per il freddo mattutino e si finiva in maniche corte, con le canottiere sudate.
Oggi la vendemmia – meccanizzata o affidata a cooperative specializzate – è un pallido ricordo di quel che fu: il rito collettivo più sentito e coinvolgente delle Langhe, il vero e proprio spartiacque tra la miseria e la dignità dell’anno a venire.
L’albero del pane
Verso le montagne, dove la vite non arrivava, la vita era certamente più dura. I filari delle Langhe mutavano in castagneti, i grappoli in ricci e le cantine in scau di pietra (essiccatoi).
Le castagne, molto meno remunerative dell’uva, erano altrettanto essenziali, una delle pochissime fonti energetiche che sarebbero durate all’inverno. Nelle aree pedemontane, la coltivazione del castagno – «l’albero del pane» – era così diffusa da aver creato le cosiddette «civiltà delle castagne», patrimonio di tradizioni culinarie che hanno forgiato la vita di intere generazioni.
La castagna era cibo, energia e vita, il principale sostentamento delle famiglie durante la stagione fredda. Poteva essere conservata tramite essicazione e consumata sotto forma di farina, biscotti, pane, cotta nel latte. Le foglie di castagno riempivano cuscini e materassi; creavano le lettiere delle stalle; il legno diventava mobili, porte, infissi, travi per i tetti e i pali del telefono.
Ancora oggi, nel Cebano (al confine tra Alta Langa e Liguria) è possibile capire quanto la castagna fosse importante non solo dall’estensione dei castagneti, ma dalla presenza pervasiva degli scau, gli essiccatori tradizionali a fuoco diretto costruiti in pietra.
Ogni famiglia ne possedeva uno: le castagne, appoggiate su di un graticcio al secondo piano, venivano lentamente asciugate dal fumo di un piccolo fuoco che poteva restare acceso anche per un mese di fila.
Un modo delicato e progressivo per sbarazzarsi dell’umidità del frutto e permettergli una lunghissima conservazione.
Il Tempo del Tartufo
Come ogni bene realmente prezioso prodotto dalle campagne, il tartufo era “possesso” dei contadini ma godimento dei notabili. Appena scovato, veniva immediatamente venduto a chi poteva sborsare cifre interessanti per il suo profumo.
Bisognava però investire tempo e denaro nella sua raccolta: acquistare i cani, addestrarli, uscire di notte in completa solitudine. Soprattutto, era necessario essere i depositari di un sapere tradizionale di difficilissimo accesso, quasi esoterico, ovvero conoscere i luoghi della sua raccolta, custoditi da ogni cercatore – il trifolao – con zelo assoluto.
È quest’aura di segretezza che ha contribuito a creare il mito del «Re dei funghi». Questo, e il genio di Giacomo Morra, ristoratore Albese del dopoguerra che, regalando il tartufo alle più famose celebrità degli anni ’50 e ‘60, lo trasformò in un “oggetto di culto”. Da protuberanza sotterranea a diamante della terra.
Il riscatto delle Nocciole
La Nocciola veniva coltivata soprattutto sulle selvagge (e poverissime) colline dell’Alta Langa, quella parte di Langhe, per intenderci, che fa capo al comune di Cortemilia e s’innalza progressivamente verso l’Appennino ligure. Se in un primo momento veniva utilizzata soprattutto in termini di autoconsumo, è dal dopoguerra che – grazie al boom dell’industria dolciaria dell’Albese (leggasi «Ferrero») divenne eccellenza gastronomica e importantissima fonte di reddito per i contadini della Langa più misera.
Alcune idee alla nocciola
Oggi la Tonda e Gentile delle Langhe (la cultivar più diffusa) è diventata Nocciola Piemonte IGP (Indicazione Geografica Protetta) dimostrandosi la migliore nocciola per la pasticceria, per la preparazione di dolci (la famosa torta di nocciole), per i gelati e – naturalmente – per creme spalmabili a base di cioccolato.
I “Lapacuse”
La zucca rappresenta l’ortaggio autunnale per eccellenza. Non richiede cure minuziose, è resistente, può essere impiegata in moltissime ricette e, nelle giuste condizioni, si conserva per mesi. Le Langhe contadine hanno sempre riservato alla zucca un posto importante nella loro dieta. Le zucche potevano essere svuotate e utilizzate come contenitori, borracce, lanterne.
Gli abitanti di Piozzo, al confine delle Langhe occidentali, venivano chiamati addirittura lapacuse («lappatori di zucche»), in quanto soliti riempire le zucche essiccate di vino per dissetarsi durante il lavoro in campagna.
Proprio a Piozzo la coltivazione tradizionale della zucca ha trovato la sua massima celebrazione. Il primo weekend di ottobre qui si svolge la più importante Fiera italiana dedicata alla Zucca, con centinaia di varietà diverse esposte nella mostra-mercato del paese.
Cougnà, eccellenza nello scarto
L’autunno è abbondanza, ma ogni spreco è bandito dalle tavole contadine. Ogni frutto avanzato trova il suo metodo di conservazione, ogni ortaggio il suo vasetto. Avveniva così anche per l’uva non destinata alla produzione di vino, trasformata in dolcissima cognà, eccellenza nata dagli scarti. A metà strada tra salsa e marmellata, la cognà veniva preparata con mosto d’uva, frutta e spezie. Il tutto, fatto sobbollire per quantità indefinite di ore fino ad ottenere una melassa dolce e vischiosa.
Tra gli ingredienti della cognà (che cambiano da paese a paese) ci sono le mele, le nocciole, le pere Madernassa, le mele cotogne, i fichi secchi, le albicocche secche. Ma anche chiodi di garofano, cannella, mandorle, noci, nocciole. Sublime con i formaggi, specie con quelli di pecora e capra, ottima per accompagnare le carni bollite, la cognà era il dolce saluto dell’autunno alla rigida disciplina dell’inverno.