Siamo abituati a pensare alla primavera come esplosione della natura, periodo di sole e aria frizzante, carico di promesse e felicità terrena. Eppure, da un punto di vista strettamente rurale, la primavera è un periodo di semina, più che di raccolta.
Un tempo, quando le nevi ancora coprivano le colline delle Langhe da novembre a marzo, la primavera coincideva con i grandi lavori della terra: un periodo di enormi fatiche dopo il riposo invernale.
Marzo era un mese di promesse: si terminavano le potature delle viti e si dissodavano i campi per la semina. Importantissima era la concimazione con il letame, la cui stessa etimologia (dal latino laetus) indica sia il «rallegrarsi» sia l’«essere fertile».
Durante la primavera si gettavano le basi per le raccolte estive e autunnali, quelle della vera abbondanza contadina, che avrebbero poi creato le scorte per “sopravvivere” fino alla successiva rinascita della natura.
Come ogni stagione, però, anche la primavera ha suoi frutti. Meno esuberanti dei raccolti di giugno o delle vendemmie settembrine, ma tipici della natura che rinasce, caratterizzati da freschezza e giovialità.
Gli asparagi (sparz)
L’asparago è una pianta antica, le cui prime tracce sono state addirittura trovate in Mesopotamia. Asparag, in iraniano significa germoglio.
Diffuso in tutto il bacino Mediterraneo, sulle colline meridionali del Piemonte ha trovato una particolare vocazione. Soprattutto sulle colline del Roero, sulla riva sinistra del fiume Tanaro, dove i suoli sabbiosi ne esaltano i profumi.
Gli asparagi venivano coltivati in tutti gli orti familiari ed erano una delle prime verdure ad essere raccolte tra marzo e aprile. Le ricette più classiche li vedevano lessi con il burro, in frittata, oppure abbinati alla tuma fresca a pezzetti in insalata.
Come ogni stagione, anche la primavera ha suoi frutti. Meno esuberanti dei raccolti di giugno o delle vendemmie settembrine, ma tipici della natura che rinasce, caratterizzati da freschezza e giovialità.
Il livertin
Erroneamente chiamato «asparago selvatico», il livertin è il germoglio del luppolo, la cui forma allungata ricorda un sottile asparago.
Nelle Langhe cresceva un po’ dappertutto: abbarbicato alle staccionate, fra i rovi, appeso ai tronchi degli alberi. Tradizione di un tempo, era uscire lungo il Tanaro con grandi ceste di vimini e abbinare la raccolta del livertin a quella del Tarassaco per creare gustose frittate.
Oggi è assai più difficile trovare il livertin in natura. Forse è per questo che è diventato un ingrediente “di culto”.
Gli chef stellati lo hanno eletto a icona del foraging (la tendenza della cucina contemporanea a utilizzare ingredienti spontanei, raccolti in natura), ambasciatore di ricchissime tradizioni povere.
Ortiche e ricotta (urtija e seirass)
Primavera, sulle Langhe, voleva dire erbe spontanee. Essendo l’orto ancora scarico, era naturale rivolgersi a Madre Natura.
Donne e bambini raccoglievano malva, tarassaco, cicoria selvatica, rosolaccio, borragine, portulaca.
Si cercavano soprattutto le ortiche giovani e tenere per cucinare zuppe, minestre, soprattutto frittelle da accompagnare con ricotta mucca o di pecora.
Anche la ricotta portava in sé un po’ di primavera, soprattutto quando era la prima “mungitura del prato”, ovvero quando, finalmente, gli animali potevano tornare a brucare l’erba appena spuntatata.
I capunet
Con gli ultimi cavoli dell’inverno, le cuisinere delle Langhe confezionavano deliziosi manicaretti: i capunet, involtini di verza con carne, vero inno contro lo spreco.
Le foglie più coriacee del cavolo venivano ammollate in acqua bollente, mentre gli avanzi della carne (vitello o maiale) ne costituivano il ripieno.
Si potevano aggiungere patate, ricotta o riso, ma anche solo pane raffermo nel latte. Il risultato, sebbene costituito di ingredienti poveri, era regale.
I capunet – cotti al forno e disposti nelle teglie in terracotta – assomigliavano ai migliori filetti di pesce. Tanto che, ironicamente, venivano chiamati pes coj, ovvero pesci-cavolo: altrettanto golosi, ma non così cari.
Il capretto (capret)
In un tempo scandito dalle feste religiose, primavera voleva dire Pasqua. E Pasqua significava capretto. Chi non lo aveva tra le proprie bestie, lo acquistava dalla Langa Astigiana, dove le capre erano allevate per la produzione della Robiola.
Ma i più lo macellavano in casa: le famiglie contadine avevano spesso almeno una crava (capra) e una pecora, la prima per la carne (dei capretti) e la seconda per le tume (del suo latte).
Il capretto era un piatto “sacro”: consumato quasi quasi esclusivamente la domenica della Resurrezione incarnava, metaforicamente, la vittima sacrificale del Cristo, agnello dell’innocenza.
Il fritto misto alla piemontese (fricassà mëscià)
Sebbene oggi sia un piatto destagionalizzato, il fritto misto annunciava la primavera.
Le macellazioni di fine inverno, prima e dopo la Quaresima, permettevano alla gente di cascina di gustare il cibo dei nobili, la carne.
Se filetto e capocollo venivano venduti al macellaio, le frattaglie finivano dritte in pastella, passate nel pangrattato e fritte nello strutto
Ecco un altro piatto di perfetta resilienza contadina, ottenuto valorizzando gli scarti.
Il fritto misto piemontese originale prevedeva infatti animelle, rognoni, filoni, cervella, fegato e testicoli serviti con i sanguinacci nel giorno festivo successivo alla macellazione.
Un piatto per stomaci forti che, oggi, è stato ingentilito con tagli di carne più pregiati, verdure, semolini dolci, savoiardi e frutta.
Resta comunque una delle grandi tradizioni della cucina piemontese, tant’è che compariva come piatto forte nei menù dei matrimoni e dei ricevimenti.
Le rane (rane frite)
Il disgelo e le piogge primaverili ingrossavano i rii delle Langhe che, nelle notti di aprile, tornavano a gracidare.
Scattava, tra i ragazzini, la caccia alle rane, che venivano catturate in grande quantità e portate alle massaie.
Passate in pastella e fritte nello strutto bollente, diventavano uno dei piatti più golosi della stagione. Venivano aggiunte al fritto misto, oppure completavano le diete povere di carne con il loro buon apporto proteico.