Questa è la storia di come il mais è diventato meliga, di come quella meliga sia diventata l’ingrediente di una “pasta” tipica della zona del cuneese e di come, stringere tra le mani una pannocchia di mais e sfogliarla, avvicini il Piemonte al Messico.
Una di quelle storie perfette per una cena di fine estate.
Il Granoturco
Un grano “straniero”
Come è riuscito il mais a diventare meliga ed avere un nome e una evoluzione così diversi dal suo avo Zea Mays?
Il viaggio della meliga inizia in un altro mondo, quello delle Americhe, quello di Cristoforo Colombo a cui dobbiamo, tra le altre cose, l’importazione del chicco dorato in Europa.
Siamo intorno agli inizi del ‘500 quando una ventata di novità scuote le fondamenta dell’Europa, che nella fascia compresa tra Spagna, Francia, Italia, Penisola Balcanica, Ucraina e Caucaso si fa culla della coltivazione del mais.
L’arrivo del mais in Italia, come tutte le novità, viene accolto con diffidenza e si ipotizza che proprio questo sentimento abbia dato origine ad uno dei nomi di questa pianta, granoturco, una definizione che sottolinea la provenienza straniera. In prima battuta il mais veniva coltivato e usato per sfamare gli animali, solo secondariamente verrà introdotto nella dieta umana.
Complice un clima favorevole, una certa rapidità di coltivazione, la possibilità di essere un prodotto non tassabile, il mais si diffonde molto rapidamente, diventando il cereale eletto nella fascia padana per l’alimentazione dei contadini.
Arriva il chicco
ma non le istruzioni
Nel ‘800, proprio nella popolazione contadina, si diffonde una patologia conosciuta con il nome di Pellagra, una malattia non contagiosa, ma incurabile.
Gli strumenti in possesso dalla medicina di quel tempo avevano imputato ad una dieta troppo ricca di polenta e troppo povera di altri alimenti l’origine di quella terribile malattia.
Solo studi più recenti hanno dimostrato che più che il consumo eccessivo, il problema risiedesse in una errata conservazione e consumazione del cereale, quasi come se il viaggio dalle Americhe avesse portato il chicco ma non le istruzioni corrette per essere inserito correttamente in una dieta sana.
Il Mais diventa Meliga
Tradizioni e memorie contadine
Quando un seme diventa pianta, cresce, si radica, diventa parte di un tutto, mette appunto le radici non solo nel terreno ma nella cultura di un luogo. Così è successo per il granoturco, che è diventato meliga, la sua coltura e il suo raccolto hanno creato nel tempo tradizioni e ricordi che sono diventati parte della tradizione agricola e gastronomica piemontese.
Sul finire di settembre arrivava il tempo della raccolta, che coincideva con il termine della vendemmia, e le cascine e i loro cortili si riempivano di pannocchie di meliga, pronte per essere sfogliate.
Il dopo cena era il momento riservato a questo rito comunitario, il “despojé”, la meliga era un momento corale di unione di famiglie che, con gesti sicuri delle mani, eliminavano le foglie dure a protezione della pannocchia.
E in quell’incedere sicuro e confortante delle mani che lavorano, la mente riposava in una cantilena che diventava rosario, intrecciato a storie di Masche, di preoccupazioni e di condivisioni, di un tempo più lento che precedeva l’autunno, quando la terra e gli uomini riposano.
La meliga è un ingrediente povero ma ricchissimo, le sue sfumature rosso dorate della varietà Ottofile, che cresce nelle nostre colline, dipingono i piatti di polenta fino a trasformarsi in pasta di Meliga.
La storia della meliga ha tanti nomi e tanti volti, ha macinato chilometri e secoli ed ha assunto con potenza quel delizioso e intricato sapore di sacro e profano che portano i prodotti che fanno la rivoluzione.
E ci immaginiamo un cortile vociante e danzante di una cascina piemontese, donne, uomini e bambini, e ci immaginiamo un cortile dall’altra parte del mondo, uomini, donne e bambini, ognuno sfogliando, ognuno con il suo chicco di tradizione da portare in comunione.
La cena dello sfogliar la meliga
Raccontata da Armando Gambera
A settembre, in terra cuneese si festeggia la maturazione del mais, ovvero della meliga.
Una cascata di chicchi rosso-aranciati disposti in pannocchia, un raggio di sole nell’incipiente autunno, quando già i Dolcetti sono stati raccolti.
Sulle colline di Langa si celebra la vendemmia: è un rito breve che si compie soltanto nei filari e si consuma nella gioia di staccare i grappoli turgidi e belli; un rito veloce per la paura della pioggia che potrebbe rovinare il raccolto, per l’assillo della pigiatura e della successiva prima vinificazione.
Quando gli uomini bevono, allora sono ricchi e fortunati e vincono le cause in tribunale e sono felici e aiutano gli amici
AristofaneI Cavalieri
La festa è nel cuore e nelle mani delle “vendemmioire”, nella loro breve sosta per il pranzo costituito da una soma d’aj addolcita da un grappolo d’uva.
L’incontro corale sotto il portico del cortile a sfogliar la meliga, a “despojé” (quante giovanottesche allusioni in questo termine dialettale che vuol dire spogliare, nella fattispecie la pannocchia, però) può assurgere quasi a festa della vendemmia, perché a La Morra si svolgeva solitamente fra la raccolta dei Dolcetti e dei Nebbioli.
Le pannocchie, rimaste con qualche foglia, venivano legate a mazzi e messe a cavalcione sui pali dei graticci ad essiccare.
In questo menu è d’obbligo la polenta gialla con tre intingoli d’eccezione che derivano quasi da un’operazione d’archeologia alimentare: la cognà, la tàrtra salata, e la bagna ‘d l’infern.
Si prosegue con la lepre al civet e poi, in questo menu che stravolge i canoni classici delle portate, il plateau dei formaggi è sostituito da una ciotolina fumante di fonduta con tartufo bianco d’Alba.
Infine le paste di meliga e più tardi, per ravvivare i conversari della compagnia, una tazza calda di vin brulé.
Due soltanto i vini: Dolcetto d’Alba con la polenta, Barolo e Barolo d’annata a seguire, anche col dolce.