Notevole è il peso della teoria del mito del Pavese tra Feria d’agosto e La luna e i falò, specialmente perché in entrambi i testi ritornano temi comuni quali l’infanzia, l’alone di miticità ad esso collegato, il simbolo, l’estasi, lo stato di grazia e la mitopéia.
A proposito, come il titolo dell’ultimo romanzo pavesiano conferma, due dei simboli mitici più importanti per l’ultimo Pavese sono appunto la luna ed il falò.
Entrambi sono tipici delle Langhe in cui lo scrittore ha vissuto la propria infanzia e, al di là della poesia, troneggiano molto spesso nelle sue creazioni letterarie, sancendo così un primato di importanza non indifferente tra gli elementi ricorrenti nella sua produzione.
In particolare, si può vedere per questi due elementi una corrispondenza molto stretta, la quale risulta specialmente se si considera La luna e i falò come applicazione di Feria d’agosto, sorta di palestra letteraria pavesiana.
Quanto conviene fare ora, infatti, è proprio immergersi nell’analisi dei simboli, i quali in Feria d’agosto guadagnano una carica mitica e nella Luna e i falò trovano un’applicazione pratica, a volte declinata con le credenze popolari, che, si ricordi, formano una parte importante del campo di studi etno-antropologico, a cui Pavese era sicuramente interessato, oltre a sentirvisi completamente immerso in esso.
Le lune e i falò in “Feria d’agosto”
Iniziando da Il campo di granturco, prosa contenuta in Feria d’agosto in cui Pavese parla del ruolo di un apparentemente normale campo coltivato, il simbolo del falò emerge in qualità di elemento rappresentativo del passato e della Langa, simboleggiando il rapporto con il passato come dialogo interminabile che sfocia nel mito, che porta alla materializzazione dell’aura mitica della collina e del campo, che da tempi immemori ripete vede ripetersi gli stessi avvenimenti su di essa.
Di questi, Pavese riesce transtoricamente a cogliere l’essenza ed il segno dell’esistenza, dialogando silentemente con una mitica figura, quella del “ragazzo”, presenza evanescente percepita dalla persona del racconto come sorta di custode di quel luogo:
[l]a stagione di quel campo è l’autunno, quando tutto si ridesta nelle campagne dietro ai filari di granturco. Si odono voci, si fanno raccolti, di notte si accendono fuochi. L’immobilità del campo contiene anche queste cose, ma come a una certa distanza, come promesse intravedute fra i rami. […] Ormai, nella distanza, sono una cosa sola i falò notturni sui colli e l’imbrunire fra gli steli vaghi del campo.
Rassicura soltanto il pensiero che chi si è buttato a terra nascondendosi è il ragazzo, e che dagli steli pendono grosse pannocchie che i contadini verranno a raccogliere domani. E domani il ragazzo non ci sarà più. (Cesare Pavese, Il campo di granturco, in Feria d’agosto)
“L’alito di altre notti come questa”
In un altro punto di Feria d’agosto, il racconto Il tempo, Pavese abbandona l’importanza del falò (che verrà ripresa, ad esempio, in Il mare) e dà il passo ad una particolare sfaccettatura della luna, in forte relazione all’estratto appena visto.
Qui la luna si presenta secondo il ritmo di ritorno del simbolo collezionato durante l’infanzia, ed è intesa come garante di una sorta di passato mitico trapunto di segni che vanno al di là del tempo, delle partenze e degli arrivi dei piccoli paesi collinari, trascendendo la vita a misura d’uomo in favore della storia universale la cui vita ha a lungo brulicato sulle colline:
Per questo, nulla mi era più caro che, in certe notti d’aprile o d’ottobre dopo tanto parlare e ascoltare, rientrando con un amico coetaneo indugiare il commiato. Tacevamo, o parlottavamo di cose indifferenti; nell’aria passavano barlumi, echi, voci lontane. Tra gli spigoli dei tetti occhieggiavano le stelle, o, talvolta, fra i rami di un albero.
Come a uno strano gioco sorgeva la luna: disegnando quinte d’ombra tra le case, o sulla collina di là dal fiume frammentandosi contro le piante e straripando in cielo. L’amico taceva e si soffermava; io sentivo trapassarmi sui sensi, sulla pelle, l’alito di altre notti come questa. (Cesare Pavese, Il tempo, in Feria d’agosto)
Si designa qui una situazione che sarà topica nella Luna e i falò, composta di elementi ben distinti e distinguibili: innanzitutto, la figura dell’“amico coetaneo” sembra essere una presenza quasi obbligata, un must che la prosa di Pavese deve ricordarsi di inserire in queste situazioni.
Il contatto con la natura, e le forme naturali che pervadono lo spazio circostante, mostrando il panorama collinare, sono un altro tema ricorrente di questo quadretto.
Lo stesso è anche per il grande silenzio, che ricorda quello della notte fonda, tranquilla e quasi sorda di cui si parla spesso nell’ultimo romanzo pavesiano; il fattore mitico, infine, è dato dalla ripetizione novella dell’“alito di altre notti come questa”, il quale sancisce la riconduzione dello stato di grazia alla mitopéia.
Quest’ultima caratteristica, poi, diviene letterariamente reale in un altro passo, tratto sempre dallo stesso racconto breve, in cui è di nuovo il dialogo (che ispira anche un momento di autoriflessione nel narratore) l’elemento locomotore della scena:
Una sera sorgeva la luna, sul ciglio della collina. Gli alberelli lontani erano neri; la luna, enorme, matura. Ci fermammo.
Io dissi: – Tutti gli anni, a settembre, la luna è la stessa, eppure mai che me ne ricordi. Tu lo sapevi ch’era gialla?
L’amico guardò la luna, e ci pensava. Mi pareva davvero di non averla mai vista cosí, ma insieme di averne in bocca il sapore, di salutare in lei qualcosa di antico, d’infantile, tanto che dissi: – È una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna. (Cesare Pavese, Il tempo, in Feria d’agosto)