Giuseppe Fenoglio (chiamato da tutti Beppe) viene alla luce il 1° marzo 1922 ad Alba, città vescovile con il suo tribunale e dal ricco e vivace mercato che accorpa tutti i prodotti della terra e della campagna langarola.
Primogenito di tre figli, di papà Amilcare – di orientamento socialista e trasferitosi nella città dalla campagna circostante per fare il garzone da un macellaio ed in seguito divenuto macellaio in proprio – e della cattolica praticante Margherita Faccenda.
Due nuclei netti e distinti che modulano in modo frastagliato ma deciso la percezione del reale del giovane futuro scrittore.
Affronta il Ginnasio ed il Liceo con qualche sforzo economico da parte della famiglia (un’istruzione classica era all’epoca riservata a figli di medici, avvocati, notai ecc.) ma ben soppesato dai frutti del suo studio e dallo sprone degli insegnanti.
Cicatrice di quegli anni è lo stigma sociale da parte dei suoi compagni che lo sbeffeggiano per le sue origini: alcune mattine, per esempio, Beppe passa dinanzi alla scuola con il carretto della carne e questo gli procura atteggiamenti di scherno e derisione.
Probabile cascame di ciò è lo sviluppo di una forma di balbuzie che svanisce poi con l’età adulta.
Come professori ha, tra gli altri, Leonardo Cocito in italiano, fucilato in seguito dai nazisti, e Pietro Chiodi deportato e poi ritrovato nella Resistenza come partigiano.
Milton allo specchio
Beppe è un ragazzo di animo sensibile, meditativo e dal fisico asciutto. Per delinearne la fisionomia possiamo utilizzare la descrizione che fa lui stesso al suo alter ego Milton, nel suo romanzo forse più numinoso che è Una questione privata:
Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace d’infoscarsi al minimo cambiamento di luce e di umore.
A ventidue anni , già aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di continuo aggrottato… All’attivo aveva solamente gli occhi, tristi e ironici, duri e ansionsi, che la ragazza meno favorevole avrebbe giudicato più che notevoli.
Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano un passo esteso, rapido e composto
Giuseppe Fenoglio
Una questione privata, 1963
La genesi del “fenogliese” e la chiamata alle armi
Durante gli anni del ginnasio avviene la sua “folgorazione sulla via di Damasco” per la letteratura e nello specifico s’innamora dell’inglese e dell’Inghilterra; la cultura anglosassone assume la valenza di un potente talismano contro le brutture di quella provincia così acerba, insufficiente e fascista. Oltre che da quel nugolo di coetanei che lo emarginano ed umiliano.
Matura così una conoscenza approfondita della lingua straniera che più tardi Calvino definirà “il fenogliese”, per il modo originale e personale d’impastare questo idioma:
…una lingua non grammaticalizzata, duttile, scomponibile e ricomponibile, nei suoi elementi costitutivi, con estrema mobilità
Dante Isella
Prefazione al Partigiano Johnny
Dopo il liceo, nel 1940 si iscrive alla facoltà di lettere di Torino: ma non è qui che la “farfalla che ha in cuore” si libra in volo. Il suo entroterra intellettuale rimane irrorato da altro: la frequenza è occasionale, gli esami sostenuti sono pochi e con distratto impegno.
Nel ’43 arriva la chiamata alle armi, torna a casa dopo l’8 settembre in tempo per l’assalto, assieme al fratello Walter, alla caserma dei carabinieri di Alba dove i fascisti hanno sequestrato i padri dei renitenti alla leva.
Il Fenoglio partigiano
Il suo cosmo assume allora la sagoma inquieta e verticale delle montagne: è l’essere un partigiano. Condizione che Fenoglio non descrive mai in modo iperbolico attraverso affreschi letterari mitici o con una retorica aggiunta.
È per lui spesso infatti una faccenda disincantata di fatica, di chilometri in salita, di appostamenti, di paure, di fame, piccole vittorie, grandi sconfitte, fughe ed attacchi veloci al buio.
E mentre staziona in questi frammenti di storia italiana, i suoi gherigli psicologici assorbono, mutano e si cristallizzano.
La sua brigata, la brigata Belbo, opera nell’Alta Langa, in quelle stesse geografie che avevano innescato in Giuseppe bambino un processo identitario insolubile ed ineluttabile con la terra.
Ipogeo ed apogeo d’ogni umana esperienza, il contatto con la Natura negli scritti di Fenoglio rappresenta la sola alta nota mistica, d’invocazione quasi religiosa, sommersa in un’altrimenti letteratura non letteraria ed asciutta (seppur di grande fascino).
Nelle descrizione dei paesaggi lo scrittore si fa raccolto e, come la lenta e progressiva apparizione di un’immagine su un foglio di Polaroid, dipinge le geometrie impure, composite, asimmetriche ed atipiche di un intimo mondo fisico e psichico.
La sua brigata viene duramente colpita ed infine dispersa durante un assalto al deposito militare di Carrù. Ripara per qualche mese presso i genitori e poi si unisce ai badogliani (che costituivano la componente monarchica della resistenza) per liberare Alba, difendendola per 23 giorni prima che questa ricada nuovamente in mano ai nazifascisti.
Quei 23 giorni che descriverà in maniera perfetta, dopo. Dopo la guerra, dopo la liberazione.
Il non-ritorno a casa ed i primi manoscritti
Il mondo dopo l’esperienza partigiana non è più il mondo, Fenoglio cambia de profundis ed il suo ritorno in società ed in famiglia è tempestoso.
Sua madre lo rimprovera per aver abbandonato gli studi, per la sua mancata indipendenza dal nucleo famigliare, per quella sigaretta sghemba sempre tra le labbra disarmoniche e per quegli istinti irrinunciabili da anacoreta agnostico in cui Beppe si cela e scrive.
Uno dei suoi primi romanzi (influenzato da un racconto di Hemingway: Il ritorno del soldato Krebs) s’intitola La paga del sabato, nel quale racconta proprio le difficoltà di inserirsi nella vita civile di un reduce, ed anche della sua inclinazione di vivere sul filo del lecito e dell’illecito.
Beppe scrive, scrive moltissimo. Entra in contatto con Calvino alla Einaudi, conosce Vittorini, Natalia Ginzburg e pubblica i primi racconti.
Altri li lascia incompiuti, li riprende e li abbandona. I suoi primi manoscritti pubblicati sono I 23 giorni della città di Alba (che include La paga del sabato smembrato poi in due racconti) e La malora, dal vocabolario molto vicino al dialetto piemontese e privo di quella speranza cristiana presente nel neorealismo.
Ed ancora scrive, monta, smonta, riscrive di nuovo in una sorta di sotterramento, dissotterramento e ri-sotterramento archeologico ed antropologico sempre in itinere e contraddittorio, conseguenza probabile di un’ incertezza, tipica di chi sa fare bene il proprio mestiere, sul non essere all’altezza del compito che si ha innanzi.
Un lavorio, come quello descritto da Dino Campana e a cui associa lo sciabordare delle onde del mare, preferibile al lavoro inteso come posto di lavoro che debilita l’uomo invece che nobilitarlo.
Un arare nei solchi di qualche lontana divinità, ma senza qualità teologiche. È la vita che è flusso ed essenzialmente una sola cosa: il divenire delle nostre proprie interne contraddizioni.
La vita in ditta, le pubblicazioni e la famiglia
Per vivere fa in seguito il procuratore per una ditta di vini, siamo pur sempre ad Alba, e poi traduce, sempre scrive, riempie fogli e cassetti. Si tratta di un servizio non molto impegnativo se non in alcuni periodi dell’anno, che gli lascia tempo per la scrittura, talora anche in orario d’ufficio.
Non avrebbe mai lasciato quella ditta e vi lavora circondato dall’affetto e dalla stima che colleghi e amici gli tributano per i suoi schietti tratti umani e lo scrupolo con cui svolge il suo incarico.
Nel 1959 firma un contratto quinquennale con l’editore Garzanti e nel 1961 la sua raccolta di racconti Un giorno di fuoco è oggetto di una disputa tra Garzanti ed Einaudi che se ne contendono i diritti.
Nel 1960 si sposa con Luciana Bombardi, conosciuta nell’immediato dopoguerra. Fedele ai propri principi (da sempre si dichiarava agnostico) è determinato ad evitare il rito religioso nonostante questo lo renda impopolare presso il suo ambiente, al punto che il sindaco boicotta il matrimonio rifiutandosi di celebrare il rito civile.
Da questa unione nasce una figlia: Margherita, come la nonna.
Italo Calvino descrive Un giorno di Fuoco, raccolta che contiene anche Una questione privata:
il romanzo che abbiamo tutti sognato, il libro che la nostra generazione voleva fare, e che adesso c’è
Italo Calvino
La malattia e la morte
E poi i polmoni lo lasciano, il suo corpo si arrende. Nel 1962 gli viene diagnosticata prima una pleurite e successivamente una forma di tubercolosi piuttosto grave.
Di lì a poco però emerge il quadro clinico di un cancro ai polmoni. Si ritira con la famiglia a Bossolasco, dove cerca di riguardarsi il più possibile, ma la malattia progredisce inesorabile fino al ricovero in ospedale alle Molinette di Torino.
Muore il 18 febbraio 1963 non ancora quarantunenne lasciando l’amata moglie e la sua bimba, ma anche il suo capolavoro incompiuto Il partigiano Johnny che riceverà, postumo, il premio Città di Prato.
Nel 2005, alla presenza della moglie, gli viene attribuita la laurea ad honorem presso l’università di Torino.
“Sulla lapide mi basterà il mio nome, le due date che sole contano e le qualifiche di scrittore e partigiano”
Giuseppe Fenoglio