In quella capitò Placido colle provvigioni: una tovaglia piena di peperoni, il tegamino coll’olio e colle acciughe, e sotto le ascelle due pinte di vino. “Che novità?” sclamò l’Anna. “Toh, si fa colazione!”.
Roberto Sacchetti “Vecchio Guscio”, 1876 . Edizione a cura di A.Brosio, Asti 1983, p.255.
E’ senza dubbio il piatto popolare piemontese che gode di maggior notorietà, anche fuori dai confini regionali.
Più che un piatto, è un “sistema gastronomico”, che partendo da una semplice salsa calda di aglio, olio ed acciughe, si dilata a coinvolgere la cultura conviviale e le strutture portanti dell’alimentazione quotidiana contadina, diramandosi poi in numerosi rivoli di fruizione e di utilizzo.
Il fascino che circonda la Bagna ha fatto crescere attorno ad essa una copiosa letteratura, basata spesso su suggestioni mitologiche non sempre corrispondenti al vero.
Negli ultimi decenni, ad esempio, è molto frequente vederla accostata ideologicamente alle fantomatiche “vie del sale” che avrebbero unito il Piemonte alla Liguria rivierasca, considerata spesso come sua antica terra d’origine e come serbatoio di rifornimento delle materie prime necessarie alla sua preparazione.
Non esiste praticamente paese piemontese situato tra Po e Appennino che non si ritenga strategicamente collocato su una di queste “vie del sale”, e simili convinzioni hanno dato vita ad affabulazioni letterarie tanto romantiche quanto poco attendibili.
Le origini medievali
Come la maggior parte dei piatti autenticamente popolari e poveri, la Bagna Cauda gioca a rimpiattino nelle fonti più antiche relative all’alimentazione e alla cucina.
Alla fine del XIV secolo il medico Antonio Guainerio, pavese di origine ma attivo e residente in Piemonte fra Torino e Chieri, compone il trattato dal titolo “Opus praeclarum ad praxim non mediocriter necessarium”.
In esso afferma:
L’aglio è la salsa dei contadini, i quali a volte lo cuociono con mollica di pane, cosa che per i francesi e gli ultramontani non ha niente di superiore” ( “Alleum est rusticorum sapor, et aliquando cum mollicie panis coquunt, quod pro ultramontanis vel francigenis nihil supra.”).
Il passo lascia pensare ad una tipica salsa medievale cremosa e densa, aromatizzata dalla forte presenza dell’aglio cotto, secondo una tipologia che non compare nei ricettari italiani, ma che invece, a detta del Guainerio, è molto amata dai Francesi e dai Provenzali (ultramontanis).
Non è azzardato vedere in questo sapor rusticorum il progenitore della Bagna Caoda, come non è azzardato, seguendo le parole del Guainerio, stabilirne l’appartenenza ad una macro-regione gastronomica estesa dalla Provenza a tutto il Piemonte meridionale, costituita in epoca medievale grazie ai fortissimi legami economici, politici e culturali stretti fra le due aree.
Il fatto che la lapidaria prosa del Guainerio (che non scrive di cucina, ma di medicina) non faccia riferimento alle acciughe né all’olio non autorizza a pensare alla loro assenza.
La salsa del “pover uomo”
Anche se descritta quasi quattro secoli dopo, la “Salsa detta del pover uomo” riportata dal “Cuoco Piemontese perfezionato a Parigi” del 1766 è probabilmente una discendente diretta di quel “sapor rusticorum” medievale, nobilitata ed alleggerita nei dosaggi ma quasi invariata sia nel nome che, forse, nella preparazione :
Mettete in una casseruola un po’ di butirro, un po’ d’olio, un’acciuga e un baccello d’aglio triturato; fate cuocere, indi aggiungetevi del pane grattugiato con brodo, e ridotta la salsa consistente la verserete sull’intingolo che servirete caldo.
La presenza delle acciughe salate nella salsa medievale è quanto mai verosimile se si pensa che tale prodotto era largamente importato e commerciato sul mercato di Asti, dove nelle tariffe daziarie del 1377 i barrilis de Anzoiis sallatis sono sottoposti al valore estimativo di 10 lire astesi, corrispondente ad un prezzo al consumo decisamente mite e largamente accessibile.
Le vie del sale di Provenza
Le acciughe salate arrivavano alla Città attraverso le rotte piemontesi del sale marino, che però, contrariamente a quel che si pensa, non univano affatto la nostra regione alla Liguria.
La riviera ligure, scogliosa e dirupata, non ha mai posseduto saline, e in passato il Piemonte si riforniva costantemente a quelle, non lontane, della Provenza.
Lunghe carovane di muli e di mercanti astigiani, già dal XII secolo percorrevano l’unica, documentata strata salis che univa le saline provenzali con Nizza Marittima, si ramificava nelle valli Stura, Gesso e Vermenagna, si riuniva poi a Cuneo proseguendo fino ad Asti, dove poi il sale veniva smistato capillarmente in tutto il territorio circostante (questa strata salis è citata in documenti del 1259, cf. Renato Bordone :“La genesi della classe politica del comune di Asti”, in “Bollettino Storico bibliografico subalpino”, 1979, p.79) .
Una rotta alternativa, ma non meno importante, risaliva costeggiando il versante francese delle Alpi, discendeva in valle di Susa, e attraverso Rivoli ed Avigliana giungeva ancora una volta ad Asti.
Il commercio del sale consentiva anche l’approvvigionamento delle acciughe salate che si smistavano in grandi quantità nei porti del golfo del Leone.
L’Anchouiado
Proprio la costante ed antica frequentazione delle saline provenzali mise in contatto i mercanti astigiani (che all’epoca detenevano una sorta di monopolio commerciale nei traffici con l’Oltralpe) con un curioso mangiare dei pescatori e degli operai del sale occitani: l’Anchouiado.
Praticata ancora oggi da tempo immemorabile, consiste in una salsa di acciughe, olio ed aglio, mantenuta calda in un tegame, nella quale i commensali seduti in circolo, a turno, intingevano un tempo semplici pezzi di pane che poi venivano fatti ulteriormente gratinare sul fuoco.
Una sorta di bagna caoda, che ha fortissimi legami di parentela e di somiglianza, troppo forti e circostanziati per essere giustificabili dalla semplice coincidenza.
Tutto lascia pensare che i carovanieri del sale, assieme a questo ed alle acciughe, portassero in patria anche la ricetta di questa “salsa calda”, che per i contadini divenne in seguito il “sapor rusticorum”, poi “bagna Caoda”, trasportata ancora più tardi sulle tavole borghesi come intingolo “rustico” ma appetitoso chiamato non a caso salsa “del pover uomo”.
La salsa contadina, abbinata ai peperoni, fa la sua prima apparizione letteraria nel romanzo “Vecchio guscio” scritto nel 1876 dal montechiarese Roberto Sacchetti, come protagonista di una colazione rusticana.
Nel 1880 l’albese Lorenzo Fantino, nel verbale dell’Inchiesta Agraria Jacini, la descrive come condimento quotidiano per la polenta tra i contadini del circondario di Alba.