Immaginati di essere in una di quelle cascine vecchie, fatte di pietra, con i pavimenti di legno, il crutin e un fienile, piene di scricchiolii e senza lampioni a illuminare il sapel (la strada) li davanti.
In una tiepida notte di inizio primavera, vieni svegliato da alcune voci e dal cane che abbaia giù nell’aia. Prendi la lampada ad olio (chi non ne tiene sempre una a portata di mano?) e scendi di corsa le scale inciampando almeno due volte nei pantaloni che ti sei dimenticato di abbottonare.
Una volta fuori dall’uscio, senti un coro di voci che proviene dal buio fuori del circolo di luce della lanterna, mentre il cane ringhia nervoso fra le tue gambe.
Le parole del canto dicono:
Suma partì da nostra cà ca i-era ‘n prima sèira per amnive a saluté deveé la buhna sèira |
Siamo partiti da casa nostra che era la prima sera per venirvi a salutare e darvi la buona sera. |
Poi dalle ombre emerge una figura vestita da frate, quasi spettrale nella luce pallida della luna, e già ti immagini che la “buona sera” della canzone stia per diventare una “buona notte“.
Di quelle eterne però.
Ma non disperare! Per evitare la dannazione eterna basta rientrare in casa e portare fuori qualche uovo, perché probabilmente sei inciampato in una delle più antiche e “langarole” delle tradizioni langarole.
Se guardi bene infatti, il fratucin (il fraticelllo) ha in mano un cavagnin (una cesta) già mezzo pieno, e poi non è davvero un frate, è il ragazzo che incontri ogni giorno al bar del paese.
E vedrai che una volta tirata una dozzina di uova emergerà dalle ombre anche il coro che prima sentivi cantare: principalmente composto da giovani, starà probabilmente venendo a reclamare qualche bottiglia di vino.
La buona notte ti sarà probabilmente data da un paio di bicchieri di troppo.
(ATTENZIONE: la festa dei Cantè j’Euv dei giorni nostri non si celebra più in questo modo, per cui se una notte, dalle ombre dell’aia della vostra cascina isolata, vedete uscire un frate accompagnato da un coro nascosto dall’oscurità, è molto probabile che siano delle Masche per davvero, quindi vi consiglio caldamente di tapparvi in casa, prendere il crocifisso e attaccare con il rosario)
Una festa senza (troppa) Mitologia
Come fanno notare su VecchioPiemonte, benché avesse delle radici storiche molto profonde (l’uovo è infatti un simbolo di fertilità e la ricorrenza cadeva in primavera, il periodo in cui la terra riprendeva vita), il Cantar le Uova era una festa praticamente priva di connotazioni mitologiche o spirituali/religiose, a differenza di molte altre tradizioni locali, come ad esempio Cantè Magg.
Un suo aspetto curioso era sicuramente quello della redistribuzione del reddito: i questuanti, quasi sempre gente con pochi mezzi, andava a cantar le uova nelle cascine più ricche e floride: le uova così raccolte infatti, venivano solitamente usate nei giorni successivi per preparare le frittate per la merendina, il pranzo nei prati del giorno di Pasquetta a cui partecipava solitamente tutta la comunità, oppure, in alcuni casi, per raccogliere denaro per finanziare la festa dei coscritti.
I giovani uscivano la sera e, accompagnati dai più svariati strumenti musicali, vagavano di cascina in cascina, fermandosi nelle aie a cantare per chiedere in dono le uova, un prodotto di tutto riguardo per l’epoca.
I Canti
Sempre su VecchioPiemonte si può leggere un’interessante considerazione a proposito delle canzoni:
Il canto era dunque ad uso personale, non aveva risvolti spirituali o addirittura origini nella mitologia pagana. Era un canto che presupponeva come risultato un comune interesse gastronomico, e che inoltre aveva una connotazione di redistribuzione del reddito.
Senza particolari costumi e con strumenti musicali molto spesso improvvisati, i ragazzi, rendevano infatti subito chiaro per cosa erano venuti;
Dene d’euv, dene d’euv dele vostre galine vostri ausin a l’an ben dic che l’evi le gorbe pine |
Dateci delle uova, dateci delle uova delle vostre galline I vostri vicini ce l’han ben detto che ne avete le ceste piene |
Dene d’euv, deen d’euv dela galinha rusa vostri ausin a l’an ben dic che tutu u di ca pusa |
Dateci delle uova, dateci le uova ma della gallina rossa I vostri vicini ce l’han ben detto che è tutto il giorno che cova |
O dene, dene d’j oeuv ma d’la galinha bianca, i vostri ausin an diso che chila l’é mai stanca |
O dateci, dateci delle uova ma della gallina bianca che i vostri vicini dicono che non è mai stanca |
.O se voli denr di euv de la galinha nèira i-è pasàie Carlevè sumà la primavèira |
O se volete darci delle uova della gallina nera è passato il Carnevale e siamo in primavera |
Queste erano poi accompagnate da strofe “personalizzate“, ovvero ritagliate su misura di chi era destinato ad ascoltarle: scherzi e motteggi di buon augurio sulle figlie da sposare, sui vedovi e sulle signore rimaste zitelle.
Dopo alcuni canti, la padrona di casa scendeva e solitamente accettava di concedere il dono tanto richiesto, e i giovani se ne andavano cantando strofe di ringraziamento . Nelle cascine più ricche, molte volte i questuanti venivano invitati in casa, dove potevano gustare alcuni piatti preparati apposta per l’occasione del Cantar le Uova, e bere qualche bicchiere (o bottiglia) di vino.
Quando invece le uova non venivano concesse, i questuanti se ne andavano lanciando delle maledizioni – quasi sempre, anche in questo caso, sulle figlie da sposare che sarebbero rimaste a prender la muffa.
Altri Significati
Oltre alla raccolta delle uova, la ricorrenza era anche e soprattutto il modo in cui il paese si ritrovava assieme, finalmente all’aperto, dopo il lungo inverno passato con le veglie nelle stalle.
Un momento di condivisione, in cui la rinascita della natura con la primavera era accompagnata dalla rinascita della vita sociale: il Cantè j’Euv era infatti un’occasione per i ragazzi di far la corte alle ragazze (le figlie della padrona), e non era raro che alcuni matrimoni si combinassero proprio grazie a questa festa.
Il Recupero della Tradizione
Nonostante il suo radicamento profondo e le sue molteplici sfaccettature di significato, il Cantè j’Euv era praticamente scomparso alla fine degli anni ’50.
Solo agli inizi dei ’70, Antonio Adriano, ebbe l’intuizione di provare a riportarlo in vita, a Magliano Alfieri e nei paesi vicini. Proprio nello stesso periodo, a Prunetto, piccolo borgo dell’Alta Langa, “Brun”, il leader del gruppo musicale dei “Brav’Om”, si cimentava nello stesso tentativo.
Dopo l’esperimento di trasformare il Cantè j’Euv in un grande festival folkloristico internazionale, tentato da Carlin Petrini negli anni ’80, la tradizione sopravvive oggi in piccole edizioni di paese, organizzate da pro-loco e da gruppi locali, e anche oggi mantiene inoltre una spiccata vocazione solidale, in quanto solitamente i proventi (se ce ne sono) dell’organizzazione della festa, vengono utilizzati per soddisfare i bisogni della collettività locale, o devoluti in progetti umanitari all’estero.