Arte e cultura

Pavese & le Langhe: la Langa, il selvaggio ed il paesaggio – parte 1

Agosto 2, 2018

Il rapporto di Pavese con la Langa è sicuramente intrecciato con il mito, ma ancora un passaggio fondamentale manca perché questo rapporto si possa inverare, anche per via critica, in maniera definitiva.

Avendo già osservato i passi riguardanti la teoria del mito, va ora distinto che il mito prende forma da una sorta di contenitore mitico, il quale, essendo lo stesso da tempo immemore, può permetterne la ripetizione costante.

Questo bacino è appunto il paesaggio, il quale assume questa sorta di alone mitico specialmente se collegato al selvaggio, sul quale però Pavese si trova a meditare e concludere che esso non è in realtà così centrale.

Il panismo pavesiano

Il primo passo di questo rapporto è indubbiamente giustificato dall’ispirazione panica, cioè riguardante l’unione con la natura, che Pavese manifesta in molti dei suoi scritti.

Di per sé, già la mitopéia comportava una sorta di pensiero panico, in cui grazie all’unione, durante l’infanzia, di un pensiero con una sensazione fatta scaturire da un particolare luogo o da una particolare ricorrenza si contraeva una creazione ex novo di materiale mitico.

Il panismo con la Langa, con la natura, è dunque quasi presupposto dalla formazione della mitopéia: senza di esso, probabilmente l’uomo adulto non potrebbe risentire la sensazione che nel suo passato aveva provato indiàndosi, cioè diventando e divenendo un tutt’uno con un’entità naturale.

In Il campo di granturco, raccolto in Feria d’agosto, questo passaggio è ben più che chiaro: dalla contemplazione dell’apparentemente normale terreno, emerge una considerazione riguardante il panismo infantile, il quale, visto come naturale nell’ottica del passato e poi rivissuto al filtro del presente, rivela la grande capacità del ragazzo confronto all’uomo:

Quel che mi dice il campo di granturco nei brevi istanti che oso contemplarlo, è ciò che dice chi si è fatto aspettare e senza di lui non si poteva far nulla. « Eccomi », dice semplicemente chi si è fatto aspettare, ma nessuno gli toglie lo sguardo astioso che gli viene gettato come a un padrone. Invece, al cielo tra gli steli bassi do un’occhiata furtiva, come chi guarda di là dall’oggetto quasi in attesa che questo si sveli da sé, ben sapendo che nulla ci si può ripromettere che esso già non contenga, e che un gesto troppo brusco potrebbe farne traboccare malamente ogni cosa.

Nulla mi deve quel campo, perché io possa far altro che tacere e lasciarlo entrare in me stesso. E il campo, e gli steli secchi, a poco a poco mi frusciano e mi si fermano in cuore. Tra noi non occorrono parole. Le parole sono state fatte molti anni fa. (Cesare Pavese, Il campo di granturco, in Feria d’agosto)

Passato e presente ne La luna e i falò

Il dramma della Luna e i falò, però, consiste proprio nella non identità dell’Anguilla prima della partenza e dopo la partenza: il suo problema principale è che egli vorrebbe ritrovarsi esattamente com’era prima di andarsene in America, ma tutto quanto ciò che è trova gli pare estremamente cambiato, quando è in realtà lui stesso, avendo lasciato la valle, ad essere mutato.

Questa presa di coscienza, non a caso, si ritrova in Feria d’agosto, e qui viene messo in discussione l’inizio della percezione della divisione tra il passato ed il presente, il quale diviene insanabile se confrontato con l’attitudine panica dell’infanzia:

Che il tempo allora si sia fermato lo so perché oggi ancora davanti al campo lo ritrovo intatto. È un fruscio immobile. Capisco d’avere innanzi una certezza, di avere come toccato il fondo di un lago che mi attendeva, eternamente uguale. L’unica differenza è che allora osavo gesti bruschi, penetravo nel campo gettando un grido alle colline familiari che mi pareva mi attendessero. Allora ero un bambino, e tutto è morto di quel bambino tranne questo grido. (Cesare Pavese, Il campo di granturco, in Feria d’agosto)

Ugualmente, nella Luna e i falò, durante la loro ascesa per andare a visitare il letto del fuoco tombale di Santina, Nuto ed Anguilla camminano sulle pendici della collina e percorrono la loro strada in mezzo alla natura, la stessa che Anguilla percorreva quando era giovane.

Anche qui quello a cui il protagonista pensa è una sorta di eterno ritorno dell’uguale, meditando però come il tempo abbia in realtà cambiato le cose dalla sua infanzia, dalla distanza della quale realizza l’obbligo di doversi staccare:

Riprese a condurmi su per quei pianori. Di tanto in tanto si guardava intorno, cercava una strada. Io pensavo com’è tutto lo stesso, tutto ritorna sempre uguale vedevo Nuto su un biroccio condurre Santa per quei bricchi alla festa, come avevo fatto io con le sorelle. Nei tufi sopra le vigne vidi il primo grottino, una di quelle cavernette dove si tengono le zappe, oppure, se fanno sorgente, c’è nell’ombra, sull’acqua, il capelvenere.

Traversammo una vigna magra, piena di felce e di quei piccoli fiori gialli dal tronco duro che sembrano di montagna – avevo sempre saputo che si masticano e poi si mettono sulle scorticature per chiuderle. E la collina saliva sempre: avevamo già passato diverse cascine, e adesso eravamo fuori. (Cesare Pavese, La luna e i falò, capitolo XXXII)

Arrivati dunque al selvaggio del paesaggio, i due raggiungono un punto di sospensione del tempo in cui ne è però inserito un segno: la tomba di Santina, o almeno quello che ne resta, la quale ricorda ad Anguilla come la sua infanzia non sia più e, tanto meno, sia recuperabile.