Arte e cultura

Pavese & le Langhe: fuochi e lune – parte 3

Giugno 21, 2018

Inoltre, questo pensiero trova un’applicazione notevole in uno dei Dialoghi con Leucò, intitolato I fuochi.

Prima di affrontarlo, però, è giusto ricordare che questo particolare libro di Pavese contiene sequenze dialogiche ambientate in un orizzonte spaziale mitico, molto spesso corrispondente al mondo collinare, ed in un orizzonte temporale coincidente con quello dell’antica Grecia.

L’esperimento dello scrittore, dunque, era quello di allestire una sorta di teatro in cui dèi e contadini sarebbero stati presentati nella loro veste mitica, intrastorica, ed avrebbero dibattuto circa i loro problemi.

Così è infatti per il dialogo citato, la cui presentazione spiega che

[a]nche i Greci praticarono sacrifici umani. Ogni civiltà contadina ha fatto questo. E tutte le civiltà sono state contadine. (Cesare Pavese, I fuochi, in Dialoghi con Leucò)

foto di Imparare con la Storia

Le Langhe e la Grecia

Qui un padre ed un figlio si preparano ad allestire un falò propiziatorio per gli dèi, ai quali vogliono fare un’offerta per guadagnarne in cambio la benevolenza e poter così coltivare le loro terre:

Padre: O Zeus, accogli quest’offerta di latte e miele dolce; noi siamo poveri pastori e del gregge non nostro non possiamo disporre. Questo fuoco che brucia allontani i malanni e, come si copre di spire di fumo, ci copra di nubi… Bagna e spruzza, ragazzo. Basta che uccidano il vitello nelle grosse masserie. Se piove, piove dappertutto. (Cesare Pavese, I fuochi, in Dialoghi con Leucò)

Il parallelo con i racconti precedenti – ed in parte con La luna e i falò – è notevole: si parla di festa anche qui, tant’è che in tutta la Grecia si stanno accendendo fuochi propiziatori per ingraziarsi il favore divino e scatenare le piogge.

Ogni contadino, in questa notte, appicca il fuoco e prega, esattamente come durante la notte di San Giovanni: l’occasione si ripete.

Anche qui, poi, ritorna la ripetizione mitica dell’avvenimento:

Padre: Dappertutto stanotte ci sono i falò.

Figlio: Perché adesso non piove? I falò li hanno accesi.

Padre: E’ la festa, ragazzo. Se piovesse li spegnerebbe. A chi conviene? Pioverà domani.

Figlio: E sui falò mentre ancora bruciavano non è mai piovuto?

Padre: Chi lo sa? Tu non eri ancor nato e io nemmeno, e già accendevano i falò. Sempre stanotte. (Cesare Pavese, I fuochi, in Dialoghi con Leucò)

Una ricerca introspettiva

Il dialogo, dopo questo passo, muta la propria attenzione antropologica in una spiegazione mitologica, fortemente inoculata nella cultura greca, che è possibile lasciare da parte in questa sede, nonostante sia molto importante per la cultura pavesiana.

Quanto preme di sottolineare con i Dialoghi è appunto che Pavese, in un altro dei suoi scritti, aveva intuìto ciò che aveva contribuito alla formazione della sua persona, traendo da questo il giusto spunto e riflettendo tale ispirazione nelle sue creazioni letterarie.

Come dice anche a se stesso in un pensiero del Mestiere di vivere, risalente al dicembre 1949,

[i]n genere, devi tener presente che negli anni ’43-’44-’45 tu sei rinato nell’isolamento e nella meditazione (di fatto, hai teorizzato e vissuto allora l’infanzia). Così si spiega la stagione aperta nel 46-47 con Leucò e il Compagno, e poi il Gallo e poi l’Estate e poi La luna e i falò ed ecc. ed ecc. (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 17 dicembre 1949)

Come questo passo giustifica, dunque, la linea che Pavese attraversa durante la sua produzione collega, come un fil rouge, i Dialoghi e La luna e i falò, nonostante non mostri la presenza di Feria d’agosto, sulla cui vicinanza con gli scritti in questione non ci sono comunque dubbi.

Guardando alla Luna e i falò, infatti, si vede una sorta di ripetizione di questo dialogo, tenuto ora – non a caso – da Anguilla e Cinto, simboleggianti appunto, sebbene in passaggi scambievoli, le stesse figure del Padre e del Figlio:

– Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto. – Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa.

– Poca roba, – disse lui. – Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine.

Il Piola era il suo Nuto, un ragazzotto lungo e svelto. Avevo visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando.

– Chi sa perché mai, – dissi, – si fanno questi fuochi.

Cinto stava a sentire. – Ai miei tempi, – dissi, – i vecchi dicevano che fa piovere… Tuo padre l’ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno… Dappertutto accendono il falò.

– Si vede che fa bene alle campagne, – disse Cinto. – Le ingrassa.

Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me.

– Ma allora com’è che lo si accende sempre fuori dai coltivi? – dissi. – L’indomani trovi il letto del falò sulle strade, per le rive, nei gerbidi… (Cesare Pavese La luna e i falò, capitolo IX)

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